“Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”.
L’articolo 27 della Costituzione lascia poco spazio alla fantasia e all’interpretazione: le “pene”, tra cui il carcere, non hanno (soltanto) lo scopo di punire chi ha commesso un reato, ma dovrebbero (anche) perseguire il fine – assai più ambizioso – di “rieducarlo”.
Ora, al di là del fatto che il verbo possa piacere o non piacere (e a me non piace, perché lo trovo paternalista e in qualche modo riduttivo, ma questa è un’altra storia), e detto che in democrazia ci si può dichiarare in disaccordo perfino con la Costituzione (salvo il dovere di rispettarla, perlomeno finché non si abbiano la forza e i numeri necessari a modificarla), non appare inutile domandarsi cosa significhi “rieducare”, e soprattutto quali conseguenze logiche, oltre che giuridiche, la parola porti con sé.
Quanto al significato, secondo Treccani “rieducare” significa “educare di nuovo, correggendo i difetti provocati da una cattiva educazione o le deviazioni da una retta vita morale e sociale”. E fin qui, come si dice, nulla quaestio. Ma anche in relazione alle conseguenze, a ben guardare, mi pare che ci siano pochi dubbi: se correggere le devianze di un individuo ha un senso, quel senso non può che essere il suo reinserimento nella comunità, posto che se così non fosse la correzione sarebbe fine a se stessa, e perciò obiettivamente priva di qualsiasi utilità.
Con queste premesse, mi pare che in estrema sintesi le possibilità si possano ridurre a tre:
- si ritiene che la pena debba avere una mera funziona punitiva, finalizzata a infliggere sofferenza al reo: in tal caso l’ergastolo, in quanto castigo supremo (se si esclude la pena di morte), avrebbe un significato. Ma per concretizzare questo punto di vista, ossia per evitare che rimanga una farneticazione, chi lo sostiene dovrebbe sobbarcarsi l’onere di modificare la Costituzione;
- si ritiene (incidentalmente, questo è il punto di vista al quale aderisco con convinzione) che la pena debba avere una funzione rieducativa, finalizzata al recupero e al reinserimento del reo nella comunità: in tal caso l’ergastolo, in quanto per definizione preclusivo di detto rinserimento, non avrebbe mai alcun senso (e in effetti, a oggi, non ce l’ha, visto che questa è l’impostazione dettata dalla carta costituzionale);
- si ritiene che gli autori di determinati reati possano essere rieducati, mentre gli autori di altri reati debbano essere considerati non rieducabili; in tal caso l’ergastolo, se e nella misura in cui venga comminato ai rei non suscettibili di recupero, avrebbe significato in alcune circostanze e in altre no. Per scongiurare l’eventualità che questa convinzione rimanga una farneticazione ancora più surreale della prima, chi la coltiva dovrebbe poter dimostrare scientificamente (non a chiacchiere, non in base alla propria opinione personale, non per averne discusso a cena con gli amici) che i responsabili di certi delitti gravissimi siano effettivamente non risocializzabili, contrariamente ai responsabili di altri delitti gravissimi che invece lo sono.
Al di fuori di queste tre ipotesi non c’è niente, benché talora, sulla spinta emotiva di fatti di cronaca particolarmente odiosi o raccapriccianti, si coltivi istintivamente la tentazione dell’eccezione, la quale tuttavia è di per sé così scivolosa da sconsigliare l’arrampicata anche ai professionisti degli specchi.
Parafrasando un noto adagio latino, quartum non datur. Tutto il resto, ossia il quartum, fa parte dei discorsi da bar; o per meglio dire da social, i quali sono ormai diventati peggio dei bar.
Se non altro perché nei bar, perlomeno, mentre si parla del più e del meno si può ordinare qualcosa da bere.
6 risposte
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Nella mia deriva utilitarista, penso che la rieducazione del reo sia di gran lunga l’opzione più conveniente per la società.
Di sicuro più conveniente dell’attuale apparato repressivo e carcerario che costa molto e produce criminalità invece che combatterla.
Ho un problema con concetto di “rieducazione”. L’idea che chi compie un reato lo faccia senza sapere che sta tradendo il patto sociale, è ingenua oltre che spesso sbagliata. Pertanto, a parte rari casi di marginalità socioculturale, più che di rieducare si tratta di rendere l’opzione di reiterare il reato poco o per nulla conveniente. Per i reati di sangue, purtroppo, nemmeno il costrutto della convenienza è utile, per non parlare di quello di rieducazione. Si potrebbe parlare di “cura”, allora, ma da psichiatra e psicoterapeuta non sono convinto che il male sia necessariamente qualcosa di patologico, da curare. Esiste nella società dalla notte dei tempi, dopo tutto.
In realtà potrebbe esistere un “Quartum”. In pratica, dopo scontati gli anni di carcere, il detenuto condannato all’ergastolo, ridotto per quanto sopra a una ventina di anni, invece che essere scarcerato, finisce in una REMS, magari restandoci a vita. Questo a fronte di risultanze anche mediche, che dimostrano che l’ex detenuto non è ancora reinseribile senza che possa costituire un pericolo per la società, per problemi suoi, da cui nonostante cure effettuate in carcere, non è guarito. Lo considero causato da almeno tre fattori concomitanti: (1) che forse non era “sano di mente” anche prima di compiere i crimini o delitti di cui fu accusato; (2) che da detenuto, non è stato adeguatamente curato (3) che non esistono in pratica altre strutture per non-detenuti, dove lo potrebbero curare. E questi fattori concomitanti mi pongono un problema, quante risorse vengono investite prima che si compiano delitti, per dare lo stesso tipo di “speranza di uscire” a chi si ritrova con una problematica psichiatrica grave? Sto semplificando, per brevità, ma credo che a tutti sia venuto in mente qualche fatto di cronaca tristemente celebre su cui queste parole potrebbero applicarsi
condivido
In quale delle 3 situazioni sarebbe stato utile inserire Totò Riina ?
Io non credo che tutti siano “rieducabili”, per cui per i non “rieducati” cosa si fa ? Isolamento da eremiti in posti sperduti ?